Words and Tags - 9 Febbraio 2023 - Rubrica Diana - Poesia in Grafica: Eccetto l’amore-Marina Cvetaeva
I Nostri lavori:
Qui
buongiorno Gianni,
la poesia che vi propongo oggi è di una poetessa che
se fosse vissuta ai nostri giorni, avrebbe potuto cantare, assieme a
Loredana Bertè
Infatti "Una donna per bene non è una donna", scrisse Marina
Cvetaeva nell’inverno del 1919.
Marina Ivanovna Cvetaeva, una delle voci più alte della poesia
russa, nacque a Mosca l'8 ottobre 1892 da Ivan Vladimirovič Cvetaev,
professore di Belle Arti all'Università di Mosca, e Marija Aleksandrovna
Mejn, eccellente pianista.
Scrisse le sue prime composizioni all'età di 6
anni.
Ebbe dapprima una istitutrice, poi fu iscritta al ginnasio, quindi,
quando la tubercolosi della madre costrinse la famiglia a ripetuti e lunghi
viaggi all'estero, frequentò degli istituti privati in Svizzera e Germania
(1903-1905) per tornare, infine, dopo il 1906, in un ginnasio moscovita.
Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura
francese alla Sorbona.
Il suo primo libro, "Album serale", pubblicato
nel 1910 che conteneva le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni
non ebbe molta rilevanza ma che notato favorevolmente dal poeta russo
Volosin.
Tornata a Mosca fu introdotta, proprio da Volosin nell'ambiente
letterario moscovita e in una breve nota autobiografica del 1939-40, così
scriveva: "Nella primavera del 1911 in Crimea ospite del poeta Max Volosin
incontro il mio futuro marito, Sergej Efron. Abbiamo 17 e 18 anni. Decido
che non mi separerò da lui mai più in vita mia e che divento sua moglie."
Cosa che puntualmente successe, pur contro il parere del padre di lei.
Il
5 settembre 1912, nacque la prima figlia, Ariadna (Alja).
L'anno dopo,
in seguito a un viaggio a Pietroburgo (il marito si era intanto arruolato
come volontario su un treno sanitario), si rafforzò l'amicizia con Osip
Mandel'stam che però ben presto si innamorò perdutamente di lei, seguendola
da S.Pietroburgo a Aleksandrov, per poi improvvisamente allontanarsi.
La
primavera del 1916 è divenuta infatti celebre in letteratura grazie ai versi
di Mandel'stam e della Cvetaeva.
Durante la rivoluzione di Febbraio del
1917 Marina si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa
rivoluzione bolscevica di ottobre.
La seconda figlia, Irina, nacque in
aprile.
A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si
unì, da ufficiale, ai bianchi. Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al
1922.
A venticinque anni, dunque, era rimasta sola con due figlie in una
Mosca in preda ad una carestia così terribile quale mai si era vista.
Molto poco pratica, non le riuscì di conservare il posto di lavoro che il
partito le aveva "benevolmente" procurato.
Durante l'inverno 1919-20 si
trovò costretta a lasciare la figlia più piccola, Irina, in un orfanotrofio,
e la bambina vi morì nel febbraio per denutrizione.
Quando la guerra
civile ebbe fine, la Cvetaeva riuscì nuovamente a entrare in contatto con
Sergej Erfron e acconsentì a raggiungerlo all'Ovest.
Nel maggio del 1922
emigrò e si recò a Praga passando per Berlino.
La vita letteraria a
Berlino era allora molto vivace (circa settanta case editrici russe),
consentendo in questo modo ampie possibilità di lavoro.
Nonostante la
propria fuga dall'Unione Sovietica, la sua più famosa raccolta di versi, "Versti
I" (1922) fu pubblicato in patria; nei primi anni la politica dei
bolscevichi in campo letterario era ancora abbastanza liberale da consentire
ad autori come la Cvetaeva di essere pubblicati sia al di qua che oltre
frontiera.
A Praga La Cvetaeva visse felicemente con Efron dal 1922 al
1925.
Nel febbraio 1923 nacque il terzo figlio, Mur e in autunno partì
per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni.
Anno dopo anno, tuttavia, fattori diversi contribuirono ad un grande
isolamento della poetessa e ne comportarono l'emarginazione.
Ma la
Cvetaeva non conosceva ancora il peggio di quello che doveva venire: Efron
aveva infatti cominciato a collaborare con la GPU.
Fatti ormai noti a
tutti, mostrano che egli prese parte al pedinamento e all'organizzazione
dell'uccisione del figlio di Trotskij, Andrej Sedov, e di Ignatij Rejs, un
agente della CEKA. Efron si andò così a nascondere nella Spagna repubblicana
in piena guerra civile.
Marina spiegò alle autorità e agli amici di non
avere mai saputo nulla delle attività del marito, e si rifiutò di credere
che il marito potesse essere un omicida.
Sempre più immersa nella
miseria, si decise, anche sotto la pressione dei figli desiderosi di
rivedere la patria, a tornare in Russia.
Ma nonostante alcuni vecchi
amici e colleghi scrittori venissero a salutarla, capì in fretta che per lei
in Russia non c'era posto nè vi erano possibilità di pubblicazione.
Le
furono procurati dei lavori di traduzione, ma dove abitare e cosa mangiare
restavano un problema.
Gli altri la sfuggivano.
Agli occhi dei russi
dell'epoca lei era una ex emigrata, una traditrice del partito, una che
aveva vissuto all'Ovest: tutto questo in un clima in cui milioni di persone
erano state sterminate senza che avessero commesso alcunché, tanto meno
presunti "delitti" come quelli che gravavano sul conto della Cvetaeva.
L'emarginazione, dunque, si poteva tutto sommato considerare il minore dei
mali.
Nell'agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata
nei gulag. Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e
fucilato Efron, un "nemico" del popolo ma, soprattutto, uno che sapeva
troppo.
La scrittrice cercò aiuto tra i letterati. Quando si rivolse a
Fadeev, l'onnipotente capo dell'Unione degli scrittori, egli disse alla
"compagna Cvetaeva" che a Mosca non c'era posto per lei, e la spedì a
Golicyno
Quando l'estate successiva cominciò l'invasione tedesca, la
Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria,
dove visse momenti di disperazione e di desolazione inimmaginabili: si
sentiva completamente abbandonata. I vicini erano i soli che l'aiutassero a
mettere insieme le razioni alimentari.
Dopo qualche giorno si recò nella
città vicina di Cistopol', dove vivevano altri letterati; una volta lì,
chiese ad alcuni scrittori famosi come Fedin e Aseev di aiutarla a trovare
lavoro e a trasferirsi da Elabuga.
Non avendo ricevuto da loro alcun
aiuto, tornò a Elabuga disperata. Mur si lamentava della vita che
conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava
appena per due pagnotte.
La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola
a casa, Marina salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si
impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia.
Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero
cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta.
-Una donna per bene non è una donna-
A ognuno chiedeva amore
smisurato e sfrenata tenerezza e libertà, a ognuno chiedeva che le provasse,
attraverso l’amore, che lei esisteva davvero.
Che era in vita.
Ogni
indizio terrestre, ogni bacio sognato in Marina era un incendio dell’anima.
“Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare
straordinariamente”, scrisse a Aleksandr Vasil’evic Bachrach, un ragazzo di
vent’anni di cui si era innamorata, o invaghita, a cui mandò molte lettere
nelle quali parlò dell’anima, corresse le parole sbagliate o goffe, dedicò
poesie, e a cui chiese, imperiosa: “Voglio da Voi, ragazzo, il miracolo. Il
miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”.
Questa era
Marina, consapevole che il tradimento della mente, dell'anima, del sogno
è il vero tradimento e non quello esclusivamente fisico.
Chiedeva ai suoi
amori non il vivere insieme ma la comprensione profonda di quel modo di
stare al mondo come in un perenne incendio che aveva al centro di ogni cosa
la poesia e il bisogno di scrivere, e chiedeva la fiducia assoluta in un
amore che conteneva in sé un particolare tipo di fedeltà – la fedeltà
all’anima, la fedeltà a se stessi.
In questo senso, all’inizio del secolo
scorso, prima, durante e dopo la Rivoluzione, a vent’anni come a cinquanta,
nella sua vita di donna innamorata e di poetessa che non poteva annientarsi
per amore, per non diventare cieca di fronte agli alberi, alla neve, al
mondo (“la creazione artistica e l’amore sono incompatibili”), in questo
senso, con addosso quell’unico logoro vestito marrone, con i figli e un
marito a cui scriveva lettere d’amore, Marina rivendicava per sé la
certezza, ma anche la naturalezza, di non essere per bene con il suo
andare incontro agli altri con le braccia protese, e dare, e prendere, e
chiedere amore, dolcezza, affetto, e cercare ogni volta una fusione.
Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché
l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura.
La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le
parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di
poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”).
Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una
lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula
dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della
giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento,
condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non
trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris
Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano
qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico
con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le
poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo
della strada).
Io posso amare solo la
persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”.
Marina civettava, leggera, danzante, e raccontava compiaciuta all’amico di
quanto si fosse infuriata perché, passeggiando per il Cremlino con un uomo,
un amante, un poeta, “una persona incantevole”, quest’uomo le parlava
incessantemente di lei. “Come potete non capire che il cielo – alzate la
testa e guardate! – è mille volte più grande di me, come potete pensare che
in una simile giornata io possa pensare al Vostro amore, all’amore di
chicchessia!”.
Era fiera di essere così, libera, anticonformista (avrebbe
odiato questa parola), interessata più al cielo che all’uomo ardente d’amore
per lei.
Totalmente estranea all’idea di dover essere, negli anni Venti,
una ragazza per bene. “Non è facile amare una cosa difficile come me”,
scriveva più tardi, con gli anni che le avevano lasciato addosso segni e
lutti e dolore e solitudine, e non era facile per gli uomini a cui
protendeva le braccia e le parole tenere vivo quell’amore, o almeno
corrispondervi pienamente.
Questa è Marina che va presa per quella che è
come la sua poesia, del resto.
Eccetto l’amore
solo a te ho dedicato nell’ombra il volto adorato.
Tutto nel
nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni, né indizi.
solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso
lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento degli altri.
che non poteva pregare, ma amava.
Non
affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel
risveglio dell’anima.
( nella nostra casa, in primavera…) non definirmi
quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i minuti tranne
il più triste, quello dell’amore.